Negli ultimi anni abbiamo tratto enormi benefici dalla politica di tassi bassi della Banca Centrale Europea.
Nel 2021 infatti le nuove emissioni dei titoli del debito pubblico italiano hanno avuto un costo medio dello 0,1% (0,44% se consideriamo solo quelli a medio/lungo termine). Nel 2020 il costo medio era stato dello 0.6% (0,96% quelli a medio/lungo termine), mentre nel 2019 era stato dello 0,95%. Nel 2021 i risparmi, in termini di minori interessi sulle nuove emissioni, sono stati pari ad 1,65 miliardi rispetto al 2020 e di 3,6 miliardi nel 2019. E’ quindi verosimile stimare in circa 4 miliardi i maggiori costi relativi agli interessi sui nuovi titoli che saranno emessi nel 2022 qualora il costo medio si alzasse del 1% rispetto allo 0,1% del 2021. Con questi numeri è più facile comprendere i benefici che abbiamo avuto negli ultimi anni grazie allo scudo della BCE.
Nelle ultime settimane si sta assistendo ad un generale rialzo dei tassi di mercato. Il movimento ha avuto inizio negli Stati Uniti d’America, dove ormai l’inflazione viaggia ad un ritmo del 7% e dove la FED ha intenzione di cessare gli acquisti di titoli sul mercato ed iniziare una nuova fase di tassi in aumento.
Per quanto riguarda invece l’Europa, non sono previsti nel corso dell’anno aumenti dei tassi da parte della BCE, ma le manovre espansive introdotte in passato andranno a ridursi. Il piano pandemico PEPP, che prevede 60 miliardi mensili di nuovi acquisti di titoli cesserà con la fine di marzo 2022. Rimane in piedi invece il programma APP che vedrà un aumento degli acquisti da 20 MLD mensili a 40 per il secondo trimestre dell’anno (quando non ci sarà più il PEPP), per poi ridursi a 30 miliardi nel terzo trimestre e tornare a 20 miliardi nell’ultimo trimestre dell’anno. A quanto sopra andranno ad aggiungersi il reinvestimento dei titoli detenuti dalla BCE che giungeranno a scadenza quest’anno.
Pur con il supporto degli acquisti della Banca Centrale Europea, la tendenza al rialzo dei tassi americani insieme ad una inflazione crescente in Europa, comporteranno probabilmente un aumento dei tassi di mercato anche nel vecchio continente. Il tesoro italiano si troverà quindi di fronte ad un probabile aumento del costo della nuova raccolta dopo diversi anni in calo.
Fin qui i numeri da un punto di vista nominale. Ma cosa succede invece dal punto di vista “reale” e cioè considerando l’inflazione? Le cose cambiano. Il caro prezzi infatti ha un impatto positivo su chi è indebitato, siano essi privati cittadini che lo stato. I primi infatti ne trarranno beneficio, se avranno contratto il loro debito a tasso fisso, dall’implicita svalutazione del debito legata all’effetto inflazione, così come per lo stato che si troverà a scadenza a rimborsare un debito che dal punto di vista “reale” non avrà più lo stesso valore che aveva all’emissione.
Se riuscissimo a non discostarci tanto dall’attuale costo medio del debito italiano (considerate quindi tutte le emissioni in essere) pari al 2,4% e con un PIL definitivo del 2021 che dovrebbe essere superiore al 6% e nel 2022 comunque superiore al 4%, saremmo anche nelle condizioni ideali per ridurre il rapporto debito/PIL salito a causa della pandemia dal 135% del 2019 al 154% del 2021.
Probabilmente già nei prossimi giorni potremmo saperne di più con l’elezione del Presidente della Repubblica e le inevitabili conseguenze che ci saranno sul governo e indirettamente sui tassi di mercato e sullo spread. La nostra classe politica, spesso focalizzata sugli interessi personali, sarà chiamata ad una prova di responsabilità.